sabato 26 settembre 2009


Chiaroscuri - Tower Bridge (London)

lunedì 21 settembre 2009

Il ritorno

Il ritorno.
La cosa più attesa e più temuta. Il ritorno di qualcuno/qualcosa.
Perchè ci penso proprio oggi, alle 19.30 del lunedì 21? Forse perchè ho appena vissuto un ritorno. Non poi tanto imprevisto/imprevedibile -altre volte vissuto- ma forse questa volte meno prevedibile del solito.
Le mie braccia sono state aperte come le altre volte. O forse questa volta ero io a dover/poter ritornare e le sue braccia in attesa di aprirsi per accogliermi?
In ogni caso l'incontro ci ha viste come sempre incerte sulle gambe, ma luminose negli occhi. E le parole fluivano veloci, come acqua da una fonte, e lo sguardo comunicava le parole che gli occhi pronunciavano. Le labbra non dovevano muoversi, erano sufficienti gli sguardi.
La lontananza non intacca ciò che il tempo ha costruito e rafforzato. Prima ne dubitavo, a volte lo dimentico, oggi lo so.
E so anche che devo ascoltare e seguire di più i suoi consigli, del mio caro grillo parlante, perchè da sola ne combino assai! E mi lascio spesso andare alle emozioni o alla razionalità, alla fiducia o all'indifferenza... agli eccessi.
Il ritorno.
Ci sarà sempre?
E' veramente eterno?

venerdì 18 settembre 2009

La Nausea

Mi accingo a leggere La Nausea di Sartre.
Come mai io, Io appunto, non l'abbia ancora letta proprio non so dirlo. Pigrizia. A volte ci colpisce e ci atterra ed è così abile e pronta nel farlo che quasi non ci accorgiamo del suo braccio alto e del successivo colpo, ma sentiamo solo l'urto del nostro corpo al suolo.
Non l'ho mai letto dicevo. Perchè leggerlo ora? Dopo il Mito di Sisifo e la dolceamara parentesi del Piccolo Principe (anche quello mai letto - forse per la stessa pigrizia, lascivia di ogni volontà?!) la mia mano è andata diritta alla Nausea.
Sono nauseata in questo periodo, devo riconoscerlo. E' proprio nausea. Di cosa? Di ogni singola cosa e persona.
Proprio di tutti e tutto no, ma di molto, anzi della maggior parte, per essere più chiari.
Sono nelle sabbie mobili della nausea del mio io.
Altre volte mi ci sono trovata, ma una fune gettatami dall'alto mi ha sempre tirata fuori. E questa volta? La fune? C'è e non è abbastanza resistente o non c'è affatto?
Non c'è.
Non vedo nulla sopra la mia testa, non vedo nulla intorno a me, non odo alcun rumore rassicurante o terrorizzante. L'aria è statica. Monocroma, inodore, insapore, silenziosa, asfissiante.
Ogni tanto, però, nelle tenebre risplende una luce. Intermittente.
A tratti abbagliante, a tratti quasi spenta. Una nuova stella? Già, una nuova stella.
Il mio cielo si è arricchito di una nuova stella.
Ci penso. La guardo. E' strana.
"Strano", poi, che aggettivo scemo. Strano rispetto a cosa. Cosa non è strano? E cosa lo è? Bè, strano rispetto al resto. E io sono strana? O il resto è strano?
Convenzioni.
Diceva Poincarè in merito alle geometrie che non c'è una geometria giusta e una sbagliata, ma solo una più comoda per gli uomini rispetto alle altre.
Ecco stranezza/normalità: è normale ciò che è più comodo; è strano ciò che è meno comodo.
E così io sono strana.
Anzi io sono. Gli altri non lo so.
Intuisco che non sono. Esistono ma non sono. Vivono le loro vite in superficie e non scendono mai sul fondo, anzi non lo hanno nemmeno mai intravisto e se lo hanno intravisto, ne sono subito fuggiti, non per paura del fondo, ma di vedere il fondo. Troppo strano. Per loro, persone normali.
Io sul fondo ci vivo e attualmente ci sprofondo!
Arriverò dall'altra parte? E cosa c'è dall'altra parte?
Sragiono. Sto cadendo nel racconto fantascientifico! Sorrido da sola, davanti alla mia scrivania, al mio pc, ormai compagno di vita, ai miei pensieri.
Ma cosa c'è sul fondo?
La consapevolezza del non-senso della vita umana.
Ecco la bomba.
Innescatala non si può fare più nulla per disinnescarla. Eploderà.
E travolgerà la vita "normale"rendendola "strana".
E ora? Se la mia/nostra esistenza è gratuita, non-sensata, casuale, come viverla?

giovedì 17 settembre 2009

Non vivo, fluttuo.

Fluttuare.
Il verbo che meglio mi descrive in questo periodo. Quale periodo? Quale l'inizio di questo periodo? Non so dirlo con precisione. Non ricordo il suo inizio o meglio non so in cosa individuarne i primi sintoni, segnali.
Lentamente mi sono sollevata da terra. I miei piedi se ne sono staccati molto lentamente, prima di pochi centimetri, poi metri. I miei occhi hanno visto allontanarsi le cose, le persone più vicine e poi inaspettatamente comparire, nella visuale ora più ampia, cose e persone prima più lontane, note e poi anche estranee.
Ho avvertito il mio corpo sempre più leggero, libero, ma anche lento, ovattato nei movimenti, quasi protagonista di una scena rallentata.
La mia mente da rumorosa è divenuta eco di mormorìi, di bisbiglìi, di silenziosi sussurri.
Un nuovo mondo si è aperto ai miei occhi, nuove angolazioni, nuove prospettive, nuovi colori, nuove immagini. La mente ha partorito nuovi e inaspettati pensieri.
Un parto continuo, sempre lento, nell'acqua, ma continuo.
E loro, i neonati pensieri, non hanno ancora ben definite le loro forme, articolazioni, dettagli. Sono volti e suoni e luci e atmosfere lontane, mute, opache, confortanti e cullanti la mia nuova incertezza nel muovere passi non più supportati dal duro e certo suolo reale, bensì da soffici, alternanti, inconsistenti nuvole bianche.
Guardo i miei pensieri, non riuscendo a sentirli. Sono muti. Sono immagini e la mia mente un grande schermo bianco.
Cosa vedo? Non riesco a dirlo. Per la prima volta non so tradurre in parole ciò che vedo, ciò che la mia mente pensa anche se in formato immagine.
Sono disorientata. La mia spada è senza punta. Ho la mia arma prediletta nelle guerre quotidiane al pieno delle sue potenzialità.
La parola.
Se non posso tradurre i pensieri in parola, non posso nemmeno leggerli, analizzarli, comprenderli. E resto in questo stallo continuo. Paralizzata dall'impotenza di capire e razionalizzare ciò che mi succede, il mio volo sul mondo, il mio fluttuare.
E quindi fluttuo ancora di più. Sono sospesa non solo sul mondo, ma anche su me stessa. Non riesco a sentirmi, a vedermi, a trovarmi. Nemmeno a cercarmi.
Provo a ripartire dall'inizio: cosa vedo più di prima?
Gli altri. Cose, persone, mondo prima lontani ed esclusi dal mio ristretto campo visivo.
Ora fluttuo nell'aria. Cosa vedo? Tutto. Riparto da qui. Dal tutto.
E sono fuori di me.
Vedo la gente. Prima da lontano, poi mi avvicino e la osservo. Volto per volto, sguardo per sguardo, punto i miei occhi su ogni singola piega del viso e cerco di carpire ogni pensiero, ogni sfumatura che una semplice linea sul volto può rivelare. Le espressioni evidenti e quelle latenti sono ottimi indizi per capire e conoscere.
Poi i gesti, i movimenti delle mani, le gambe accavallate, il piede che picchia ritmincamente il suolo, il dito che tamburella sul tavolo.
L'abbigliamento, gli accessori, i capelli, il cellulare ultimo modello, le chiavi, tante e tanti o pochi o nessun ciondolo attaccato al portachiavi. I colori. Degli occhi, della maglietta, del bordo della camicia; i jeans larghi, il tacco alto, lo smalto alle unghie delle mani, il portafogli nella tasca posteriore dei jeans, nessun portafoglio.
Dettagli. Parlano ai miei occhi attenti ed esperti di letture difficili.
Mi focalizzo sulla gente, sugli amici. Vecchi: non li ho mai letti così attentamente e ne scopro volti nuovi; nuovi: non li ho mai letti, perchè non li conoscevo affatto, ne costruisco un'immagine; corrisponderà alla realtà?
Gli estranei: li scruto con curiosità e immagino storie, vite, pensieri, relazioni umane.
Me stessa: impossibile vedermi. Guardo gli occhi degli altri e mi vedo nei loro.
Cerco di ricostruire Claudia dalle parole, dalle immagini, dalle impressioni che gli altri hanno di me. Dai legami che loro instaurano con me.
Mi scruto nei miei rapporti con gli altri, mi conosco attraverso il mio riflesso nel mondo esterno.
Sono gli altri il mio interlocutore, il mio specchio, il mio riflesso, il mio metro, il mio oggetto e soggetto di indagine.
Mi cerco nelle poesie, nelle canzoni, nelle parole dette e scritte.
Ma non nelle mie. Non mi trovo nelle mie, non riesco a dirmi a parole mie, non riesco a vedermi, non riesco a pensarmi. Fino ad oggi, quando inaspettatamente e quasi automaticamente ho aperto questo blog sul quale non scrivevo da tempo, non usciva dalla mia penna una sola pagina su di me, analitica dei miei pensieri. E questa pagina è troppo confidenziale per un blog. Indice della mancanza di punti, dei miei cardini. Li ho persi.
Lei non è più da nessuna parte: sulla terra, nelle sue parole, con i suoi vecchi amici, nel suo corpo, nella sua mente, nella sua vita.
Fluttua.

Da attrice a spettatrice.

Un evento può deformare il passato. Può imbruttire anche i ricordi più belli, più emozionanti, più amati da noi, protagonisti di un tempo e spettatori di oggi.
Un intoppo nello svolgimento della trama, oltre a determinare inevitabilmente un certo finale imprevisto o mai augurato, riscrive la trama già narrata.
Da protagonisti della storia, diventiamo passivi e impotenti spettatori della nostra stessa vita, che non possiamo in alcun modo ridirigere nella direzione per la quale abbiamo agito attivamente finora. O almeno credevamo di aver fatto. Magari invece agivamo proprio nel senso opposto senza rendercene minimamente conto e ora malediciamo gli altri protagonisti,le cui azioni erano forse solo reazioni.
Vogliamo consolarci così?
Ci proviamo.
Proviamo a dire che così doveva andare, che c'era un disegno, un destino o che,se è accaduto,certamente vi abbiamo contribuito anche noi, seppur inconsapevolmente.
Ma tutto ciò è sufficiente a darci anche solo un leggero sollievo dal nostro odio per le azioni altrui (o per il destino, che dir si voglia)?
Da attrice a passiva spettatrice.
E' la frase che ronza nella mia mente, anzi che sbatte contro le pareti marmoree della mia mente.
Credevo di essere attrice, ma sono sempre stata solo passiva spettatrice. E' la frase che sbatte subito dopo.
Vero?
Non lo saprò mai, perchè le storie non finiscono, non si concludono mai, ma sempre si interrompono, come mi scrisse anni fa il mio professore di filosofia del liceo.
Verissimo.
Le trame non conducono mai ad una meta, ma muoiono prima. Il finale c'è, ma sarebbe sempre potuto essere un altro. Diverso. Lieto. Triste.
Non lo sapremo mai. Altro pensiero che sbatte nella mia mente.
Non poterlo sapere mai.
E se avessi detto... se avessi fatto... se non avessi pensato... se non avessi saputo... se avessi aspettato... se avessi insistito...
Maledetti congiuntivi trapassati dell'irrealtà!
Maledetti rimpianti. Altrettanto maledetti i rimorsi.
"Meglio avere rimorsi che rimpianti!" mi disse un giorno caldo e assolato un amico, una persona che ama fare della propria vita un'opera d'arte.
"Fai sempre tutto il possibile!" era il suo messaggio. Meglio i rimorsi per aver fatto qualcosa che non i rimpianti per non aver fatto qualcosa.
Ho messo in pratica il suo insegnamento: cerco di non avere mai rimpianti. Cerco di essere un'attrice attiva della piece teatrale della mia vita.
Inevitabilmente sono anche spettatrice delle azioni altrui, che agiscono su di me e determinano il finale della mia trama.
Però non ho rimpianti, perchè le scelte che conducono a quel finale non sono mie.
I rimpianti o rimorsi non saranno nemmeno miei. Ronzeranno, anzi sbatteranno nella mente dell'altro attore/attrice, che sarà anche passivo spettatore delle proprie azioni.
Io avrò fatto di tutto, ma poi inevitabilmente da attrice sarò diventata spettatrice.

Quando il passato passa davvero?

Quando il passato cessa di creare buchi nel presente per entrarvi?
Quando arriva il momento in cui una canzone non ci catapulta più improvvisamente in un luogo, con persone e in atmosfere passati?
Quando il nostro profumo non pronuncia più il suo nome?
Quando il mare non ci ricorda più antiche giornate serene?
Quando la pioggia non lava più le nostre lacrime?
Quando il passato passa davvero?
E permette al presente di vivere autenticamente?

E' la nostra volontà a ricacciarlo nel luogo che gli è proprio o è il suo stesso trascorrere e accumularsi a farlo scivolare lentamente nell'oblio del tempo e della nostra mente?

E, in attesa di scoprirlo, come possiamo vivere un presente macchiato di passato?

Siamo cicloni distruttori?

Perchè dobbiamo sempre scottarci per accorgerci che stiamo giocando con il fuoco?
Ronza spesso in questi giorni nella mia mente questa domanda, seguita da una lunga lista di esempi facilmente tratti dalla mia vita e da quelle delle persone a me vicine o lontane, che ho modo di osservare e che mi forniscono fecondo spunto di riflessione.
L'essere umano non si ferma ma persevera finchè non si fa male.
Come l'animale. Siamo in questo rimasti animali.
Difficilmente e molto raramente riusciamo a pensare in modo poco più che astratto e remoto alle se non sicure almeno molto probabili conseguenze delle nostre azioni.
E sbagliamo. E facciamo male agli altri. Ma soprattutto facciamo male a noi stessi. Ci buttiamo senza riserve in ciò che il caso, o meglio, un intreccio di eventi ci conduce dinanzi e rotoliamo acquistando sempre più velocità. Sembra che slittiamo sul ghiaccio, su una discesa ghiacciata, priva di appigli che possano almeno suscitare in noi il semplice pensiero di rallentare.
Scivoliamo sempre più, sempre più veloci e trasciniamo tutto ciò che per caso ci si para dinanzi, ciò che potrebbe rappresentare quel freno, ma che ai nostri occhi è solo un ostacolo alla "felicità" del momento.
Siamo allora cicloni che travolgono tutto ciò che li circonda per raggiungere la meta dettata dal loro stato del momento?
Forse sì. E l'altruismo e il rispetto degli altri sono solo vacue parole.
Muove le azioni e le menti dell'uomo solo un cieco egoismo.
Ma ciò che mi lascia costantemente e rinnovatamente a bocca aperta è la naturalezza dell'egoismo umano.
L'istinto di conservazione muove l'uomo in ogni istante della sua vita.
Esso è alla base anche dei suoi capricci. Dei suoi piu superflui e momentanei desideri. Egli li persegue, fino in fondo, senza esitazioni di sorta, senza indugi di carattere morale o di qualsiasi altra natura.
Nonostante i molteplici freni che dalla sua origine ha cercato di darsi per evitare di ledere il suo simile, l'uomo procede imperterrito e incurante di tutto e tutti.
E' veramente un animale sociale o piuttosto un mostro distruttore?

Noto o ignoto?

Se un abbraccio ci rassicura e un altro ci appassiona, da quale ci lasciamo avvolgere?
Dinanzi al bivio serenamente familiare e magnificamente ignoto quale stada prendiamo?
Cosa cerchiamo in una relazione di amore, di amicizia, di lavoro, umana nel senso più lato del termine?
La più calda e serena sicurezza di un volto noto, di una voce materna o paterna, della mano dell'amico d'infanzia o l'accattivante e magica instabilità di occhi magnetici, di una voce suadente, di un pensiero destabilizzante?
Razionalmente optiamo per la serena familiarità, ma istintivamente e troppo spesso concretamente cadiamo, anzi direi ci fiondiamo, nell'appagante estraneità.
Il nuovo, l'ignoto, l'incerto, l'instabile, l'oceano, la notte, il silenzio, il nulla.
L'uomo si è sempre lasciato stregare da tutto questo. Da tutto ciò che è altro dalla terra, dalla stabilità e dalla sicurezza.
Paradossalmente, però, sul mare non vive. Cerca la terra. Cerca certezze. Ma queste non lo appagano.
Non viviamo senza certezze e serene familiarità, ma aneliamo incertezze e destabilizzanti estraneità.
La coerenza?
Un'utopia.

Amore

Amore.
Una parola usata e abusata nella quale non ho mai creduto fino in fondo.
Cos'è? Qual è la sua definizione? Quali le sue caratteristiche?
Affetto? Passione? Bisogno? Attrazione? Complicità? Intuizione? Magia?
Una sfilza di parole un po' vuote, un po' vere, viste, vissute, sentite, usate.
Oggi credo che l'amore esista.
Tutto è amore.
La vita delle persone è un reticolo d'amore, anzi di amori che si intrecciano e che tessono l'io e lo formano, plasmano, delimitano, colorano.
Ci sono gli amori tradizionali, quelli per i genitori, per i fratelli, per i nonni e gli zii e i cugini. Poi quelli per le amiche e gli amici, diversi, con millimetriche sfumature di intensità, colore, toni. L'amica e l'amico senza il quale non respiri è uno, massimo due; quello, poi, sulla cui spalla piangi e i cui occhi ti denudano e le cui mani toccano la tua anima è uno. E tu lo ami come fosse te stesso.
C'è, poi, il tuo partner, la tua metà, il tuo compagno di vita, il tuo sostegno e appoggio e il tuo cucciolo e tesoro... lo ami come nessuno, se non lo senti non vivi, ti manca l'aria, ti senti un pesce fuor d'acqua. Saresti disposto a tutto per lui.
Ma sul più bello, quando più lo ami e ti ama, quando più vi capite e intuite i vostri pensieri, quando un suo gesto è vita per te e il tuo gesto è atteso e desiderato da lui, quando i vostri occhi parlano e le vostre mani si amano, quando i corpi si chiamano da lontano, quando le menti si abbracciano... rinunciate a lui.
Gli anteponete qualcosa e lo perdete.
Perchè diciamo di amare e di non poter vivere senza qualcuno e poi non siamo capaci di rinunciare a tutte le altre cose per l'unica che ci rende veramente vivi?
Perchè per vivere o vivere meglio di fatto moriamo dentro?

Persone

Mi capita spesso di osservare le persone. Reali, dei film, conosciute, ignote, amiche, conoscenti, parenti, lontane, vicine, simpatiche, antipatiche...
Mi fermo fisicamente e mentalmente per osservarle, scrutarle, analizzarle, categorizzarle. Ne osservo il volto, l'aspetto, i gesti, gli occhi. Ne ascolto la voce, i discorsi, le singole parole.
Mi accorgo che ci sono dei tipi: fisici, con tratti del volto, del corpo affini ; gestuali: con movenze, posture e gesti quasi identici; caratteriali: con azioni, reazioni, atteggiamenti uguali. Infine ci sono i tipi mentali che pensano, vedono il mondo, se stessi e gli altri nello stesso modo.
Al di là della prima ossservazione e catalogazione che istantaneamente e spontaneamente avviene nella mia mente, subito nasce in me l'interesse a conoscere il pensiero, la vita, le emozioni di alcune persone che per un qualche motivo, spesso anche a me ignoto, mi colpiscono e si insinuano nella mia mente.
Amo le persone e i loro vissuti e magmi interiori.
E sembra che loro amino me.
Anche loro, infatti, (non tutte, ma solo alcune, sempre per quello stesso ignoto motivo per il quale capita a me) sono come attratte dal mio amore per loro e mi si avvicinano e mi si raccontano. Si denudano dinanzi al mio amore per loro.
Io, allora, da un lato ho la possibilità di conoscerle e di osservarle nei loro pensieri ed emozioni e stati d'animo più reconditi, dall'altro ho un nuovo oggetto d'indagine: questa strana reciproca attrazione tra persone.
Questo dialogo tra nudità che si denudano sempre di più l'una dinanzi all'altra. Questo legame neonato ma già vitale e forte che si rafforza sempre più mentre le voci, i vissuti e le emozioni si intrecciano e si abbracciano sempre più.
E la mia vita entra nella loro e la loro irruentemente nella mia.
Perchè questo mi accade: vivo più vite. Sono empatica e sento ciò che le persone che mi circondano e con le quali, per quel motivo che non so, stringo un forte legame sentono. Vivo con loro ciò che loro vivono. Vedo con i loro occhi. Gioisco per le loro gioie. Piango e sono lacerata dai loro dolori.
Il motivo?
Non l'ho mai scoperto.
Altruismo? Non ci credo. L'altruismo è solo una forma di egoismo (come diceva Nietzsche).
E' una specie di legame primordiale che avverto tra me e le persone e i miei simili (soprattutto quelli che per un qualche motivo non ben identificato sono più simili a me di altri) che mi fa sentire ciò che la loro pelle sente, il loro cuore prova, la loro mente partorisce.
E quando non sono con me, in tutti i sensi in cui con me si può intendere, mi sento incredibilmente sola. Non più abituata a vivere una sola vita, a non sentire un legame tanto inspiegabile quanto forte con altri che sono per me soltanto persone.

Viaggi

A volte mi accade di dirigere il mio sguardo al cielo e pensare al cielo che vedrei se mi trovassi in quello stesso momento in un altro posto...
E quando ero veramente in un altro posto, guardavo il cielo, soprattutto quello serale, preferibilmente notturno, e pensavo al cielo in un altro posto ancora. E volevo quasi toccare il blu che vedevo, anzi volevo afferrarlo, tenerlo nel mio microscopico pugno per non perderlo, per non dovermene separare più. E invece il momento della separazione inesorabilmente giungeva e con lui la mia più acuta nostalgia per un posto non mio, mai stato mio, per una terra di transito sotto i miei piedi frettolosi di approdare di nuovo a casa e di ripartire per una nuova meta.
Il viaggiatore può essere attento, ditratto, compagnone, solitario, allegro, malinconico, risoluto, istintivo... tutto insomma eccetto che nostalgico. Come può una persona che ama il transito, il passaggio, il moto attaccarsi ai luoghi, alle cose, alle immagini, ai volti, agli odori, alle atmosfere, alle sensazioni, ai tramonti, alle chiese e ai castelli, ai tetti, ai fiori e agli animali dei luoghi in cui soggiorna anche solo pochi giorni?
E ancora come può questa nostalgia morbosa e cronica conciliarsi con il desiderio sempre rinnovato di migrare, di curiosare, di esplorare, di assaporare, di immergersi in città mai viste, tutte diverse, in cui la gente sembra ora domandarti, ora correggerti, ora comandarti, ora applaudirti, ora consigliarti e invece sta semplicemente parlando in una lingua non tua che accarezza il tuo orecchio intimidito.
Eppure è possibile essere nostalgici di tutto, anche di un semplice respiro, e instancabili ricercatori di profumi nuovi e di luci mai viste, di se stessi pellegrini tra volti estranei e altri, ma allo stesso tempo familiari e prossimi, perchè umani come i nostri.
Cerco di inspirare quanta più aria possibile per portarla con me a casa, faccio mille foto a tutto, conservo tutto di tutto, metto nero su bianco pagine di diario che immortalino con parole, come pennellate su tela,ciò che i miei occhi hanno visto, le mie orecchie udito, le mie mani sfiorato. Magari scrivo anche qualche verso che nella sua semplicità imprigioni la complessità trovata.
Riflettendo sulla mia arte di traduzione e archiviazione dei miei viaggi, scopro una scarsa fiducia nelle mie capacità mnemoniche nonchè nella forza penetrante e permanente delle emozioni.
Ma anche il mio solito timore nostalgico per il distacco e la perdita delle cose.